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Festeggiamenti 1° agosto: i discorsi ufficiali

Discorso del Primo d’agosto di Giovanni Jochum, Podestà di Poschiavo

Comune di Poschiavo, Piazza di Poschiavo, 1° agosto 2019, ore 20:00

Gentili Signore, stimati Signori Cari presenti, cari amici della Valposchiavo

È con grande emozione che vi do il mio più cordiale benvenuto a questa festa del Primo Agosto e che vi porto i saluti del Consiglio comunale.

L’emozione nasce dal fatto che non sono abituato a salire su un palco e a parlare a un vasto pubblico, ma anche dal fatto che ho assunto il mandato di Podestà da soli sette mesi. Sette mesi in cui ho lavorato con piacere e con grande energia ai tanti e svariati temi che sono arrivati sul mio tavolo: agricoltura, sport, sanità, scuole, inerti, raccolta della spazzatura, edilizia, irrigazione e altri ancora.

Sette mesi in cui ho incontrato molti cittadini del nostro Comune, sia negli uffici comunali sia fuori, che mi hanno incoraggiato a proseguire nel mio lavoro come fatto finora e anche alcuni che hanno manifestato il proprio disappunto per una o l’altra decisione presa. Ringrazio indistintamente tutte queste persone, perché con il loro riscontro partecipano in modo attivo a mantenere vivo il processo democratico.

Sette mesi in cui ho potuto contare sul sostegno dei colleghi del Consiglio comunale e dei colleghi dell’amministrazione e per questo li ringrazio sentitamente. Insieme abbiamo già affrontato anche diverse questioni complicate, discusso a fondo - a volte animatamente quando le opinioni divergevano – e abbiamo cercato soluzioni, in parte difficili da trovare, a livello comunale, regionale o cantonale. Alcune di queste si stanno già concretizzando: non sono forse soluzioni perfette, ma, considerati i presupposti e le tempistiche, sono quelle che abbiamo ritenuto migliori.

Da convinto democratico e federalista, ritengo che il sistema svizzero sia adeguato alla nostra cultura, alla nostra tradizione elvetica. 26 cantoni, 4 lingue ufficiali, innumerevoli dialetti, vallate montane distanti dai centri, libertà di religione e di parola ecc. richiedono un sistema politico decentralizzato, federale. Occorre lasciare più potere possibile, più competenze possibili al livello più basso possibile. Ciò significa partire dal singolo cittadino, dalla responsabilità individuale. Più siamo responsabili come individui, più riusciremo a mantenere vivi i nostri comuni e a lasciar loro le competenze necessarie alla gestione del proprio territorio. In altre parole, se siamo solo egoisti e non ci curiamo del nostro vicino, inteso come persona ma anche come territorio, ci ritroveremo con una miriade di leggi, restrizioni, obblighi e controlli. Noi, con il nostro comportamento, possiamo favorire o evitare tale fenomeno. Io mi impegno per cercare di rallentare questo processo che, a mio parere, causa una situazione piuttosto assurda: sempre più regole e sempre più leggi fanno sì che alla fine ogni individuo sia portato a pensare che ciò che non è proibito è legittimo, o a cercare lacune legali per trarre profitto. E così si va incontro a un circolo vizioso che conduce a una deresponsabilizzazione del cittadino, a un impoverimento della democrazia e del federalismo.

Le origini della Svizzera - lo sappiamo - risalgono al 1291, quando è stata stipulata l’alleanza tra le popolazioni delle regioni di Uri, Svitto e Untervaldo. L’accordo è stato siglato allo scopo di difendersi contro qualsiasi aggressore. In effetti gli Asburgo avevano tentato di far valere le loro pretese su Svitto e Untervaldo, fatto che ha portato a un susseguirsi di interventi militari. Sono dunque nate nuove alleanze, dapprima con i vicini di Lucerna, Zugo, Zurigo, Berna, poi anche con il Vallese e lo stato delle tre leghe.

L’unione fa la forza: la popolazione di tre territori si è accorta che, combattendo ognuno per conto proprio, non poteva far fronte alle difficoltà, all’oppressione che giungeva dall’esterno. Si trattava dunque di collaborare, di unire appunto le forze per raggiungere un obiettivo comune: la libertà e il controllo sui propri territori. Anche oggi, molte volte, se vogliamo raggiungere degli obiettivi, dobbiamo collaborare. La collaborazione può essere a livello individuale, comunale o anche regionale, indipendentemente dal colore politico e dallo scopo perseguito. In parte sono le direttive che arrivano da Berna o da Coira a imporci una collaborazione, in parte sono gli imprenditori e le aziende stesse che vedono la necessità, per esempio, di investire in nuovi macchinari o nuove tecnologie con altri operatori del settore.

Le basi per lo Stato federale moderno sono state poste con la Costituzione del 1848 all'indomani della guerra del Sonderbund. Per creare lo stato moderno è stato necessario trovare dei compromessi tra una forma di federalismo intransigente e uno stato centralizzato secondo il modello francese. Da quel momento la Svizzera ha avuto un governo con compiti anche centralizzati: competenze fino ad allora cantonali sono passate alla Confederazione, per esempio la difesa nazionale, la moneta, le dogane e il servizio postale. Con la creazione di uno “spazio economico comune”, lo stato federale si è fatto promotore dello sviluppo economico e con l'industrializzazione la Svizzera si è trasformata radicalmente.

Ci sono stati cambiamenti massicci, impensabili per la maggior parte della popolazione e inverosimili anche dal punto di vista dell’autonomia dei cantoni. La lungimiranza delle persone di quel momento ha permesso di trovare un compromesso e attribuire alla Confederazione soltanto quei compiti e quelle funzioni la cui centralizzazione ha portato a un miglioramento della collaborazione tra i cantoni e a una semplificazione dell’attività commerciale. Grazie a questi cambiamenti, allo sviluppo economico, all’innovazione, all’industrializzazione, è stato creato lo stato di cui oggi andiamo fieri: è stata creata la Svizzera moderna.

Oggi ci troviamo in una situazione analoga: siamo nel bel mezzo di una trasformazione tecnologica che sta modificando il nostro modello di vita forse ancora più dell’industrializzazione. La digitalizzazione, per esempio, rivoluziona il modo di lavorare, alcuni mestieri scompaiono, ma ne nascono di nuovi. Cambia il sistema d’insegnamento e di apprendimento. Il mondo della comunicazione e anche quello finanziario sono stati rivoluzionati e si trovano sempre ancora in una fase di mutamenti radicali.

Parallelamente, anche a livello politico si nota un cambiamento strutturale: da anni stiamo discutendo e negoziando con l’Unione Europea riguardo ai contratti bilaterali e alle regole del gioco da applicare. Qualunque cosa si decida, nel nostro Paese ci saranno dei cambiamenti importanti, ma non dobbiamo avere paura di affrontarli. Ogni cambiamento è da considerare anche un’opportunità per modificare ciò che non va bene, per introdurre delle novità o magari anche per ripristinare qualcosa che prima funzionava meglio.

Sono convinto che, in una fase di trasformazione come quella che stiamo vivendo, sia fondamentale essere aperti al dialogo e che sia necessario un dibattito democratico approfondito a tutti i livelli, anche a livello comunale, dei singoli partiti e dei gruppi d’interesse. Le nuove condizioni quadro che noi cittadini svizzeri definiremo attraverso il dibattito politico devono poter garantire al nostro Paese uno sviluppo democratico ed economico che ci permetta di mantenere un alto grado di benessere e la maggior autonomia possibile. Sta a noi cittadini partecipare all’importantissimo processo democratico che stiamo vivendo in questo periodo di rinnovamento tecnologico e politico.

La Costituzione svizzera, quella grigionese e quella del Comune di Poschiavo, esattamente come il nostro sistema di democrazia diretta, ci danno la possibilità di esprimerci anche in merito a questi temi fondamentali: partecipiamo alla discussione, facciamo uso del nostro diritto e andiamo a votare. Anche questo significa essere svizzeri.

La democrazia diretta e il federalismo sono dei valori essenziali per la Confederazione, per i cantoni e i comuni. Nella misura in cui continueremo attivamente a fare uso dei diritti che ne scaturiscono, questi valori rimarranno vivi e continueranno a sostenere lo sviluppo del nostro Paese. Dobbiamo essere fieri e anche gelosi di quanto democrazia e federalismo ci danno e viverli nella nostra quotidianità. Anche questo fa parte del nostro Paese, anche questo fa parte del Primo Agosto.

Viva Poschiavo, viva i Grigioni, viva la Svizzera!

Buon Primo Agosto a tutti.


Discorso del Primo d’agosto di Sacha Zala

Comune di Brusio, Campascio, Casai, 1° agosto 2019, ore 20:30

È un grande onore poter essere qui con voi ai Casai questa sera del Primo d’agosto. È un grande piacere poterlo fare da neolaureato del Premio grigionese per la cultura. È una grande gioia poterlo fare da campascino. È però anche un grande fardello che grava sulle mie spalle di storico, quale per finire resto e sono. Secondo la tradizione, infatti, oggi festeggiamo il 728esimo compleanno del nostro Paese – ma, come tante tradizioni che rimandano ad eroici fatti storici, anche questa non regge completamente ad una attenta e serena analisi storica.

Dapprima prevale però il piacere delle reminiscenze della mia gioventù nella quale proprio i Casai erano il vero centro dell’universo conosciuto. Qui sotto c’era l’asilo da dove partivamo diligentemente in colonna per due per andare a giocare qui sopra alla cosiddetta «curva della macchina rotta». Di fianco alla maestosa cascata del Saiento c’era il frutteto di mio nonno, nel quale innalzammo anche le tende di un campeggio degli esploratori, prima che l’alluvione del 1987 si portasse via tutti gli alberi e lo trasformasse in un brullo pascolo. Qui dietro, a meno di centocinquanta metri, noi ragazzi di Campascio avevamo costruito una capanna su un albero: dapprima di un solo piano e poi, via via, raggiungemmo addirittura i tre piani, un vero portento d’ingegneria statica e un miracolo dell’arte della carpenteria.

Le biciclette, quella volta, si chiamavano Mirella e Saltafoss e con le nostre, tra i vicoli ed i sentieri di Campascio, su e giù da Sant’Antonio ai Casai e per la contrada dei Carlini, facevamo acrobazie di ogni sorta, prima di tuffarci d’estate nel famigerato «pozzùn» giù nel fiume – ovviamente già allora considerata bravata temeraria e pericolosa.

Sono proprio queste forti e felici esperienze che mi hanno sempre fatto reagire con netta irritazione all’insistente domanda che spesso mi veniva e mi vien sempre ancor posta: ma lei che abita a Berna, come faceva a fare il presidente della Pro Grigioni Italiano? Oppure: ma lei che insegna all’Università di Berna, perché riceve il premio grigionese per la cultura?

Sono domande che probabilmente per chi non ha la nostra ferrea e indissolubile identità di grigionitaliani e di minoranza, addirittura nel nostro proprio Cantone, hanno forse un certo senso, ma per noi che siamo cresciuti in questo singolare lembo di terra sono difficilmente comprensibili.

Come si fa a negare ciò che siamo, ciò che attraverso la nostra lingua e la nostra cultura ci rende effettivamente singolari e, spesso, nel resto del Paese non ci rende proprio la vita facile?

La nostra lingua, che lo vogliamo o meno, ci dà una forte identità. Questa nostra forte identità è certamente rafforzata dalla nostra posizione ai confini prima dello Stato delle Tre Leghe e poi della Svizzera. La storia stessa del nostro Comune è una storia di confini, d’inclusioni di nuovi territori e di separazione da altri.

Soltanto dopo la conquista della Valtellina da parte delle Tre Leghe nel 1512 i paesi di Campocologno (1518) e Zalende (1526) vennero inclusi alla nostra valle. Se, da allora, il confine nella bassa valle venne definitivamente fissato –con successive lievi rettifiche – a

Piattamala, molto più incerte e controverse restarono invece per quasi ancora 350 anni le nostre frontiere nella Val Saiento e a Cavaione.

Come si sa, i Grigioni – senza la Valtellina, Bormio e Chiavenna – entrarono definitivamente nella Confederazione soltanto nel 1803 e soltanto sotto la pressione francese della mediazione di Napoleone. Ecco dunque quando noi Grigioni diventammo svizzeri.

Sarà poi soltanto con la cosiddetta Convenzione di Piattamala del 26 agosto 1863, che Italia e Svizzera stabilirono definitivamente l’appartenenza territoriale della Val Saiento al nostro Comune. Allora a Cavajone vivevano più di cento persone. Ci vollero comunque ancora più di dieci anni, fino al 1874, per accogliere nella cittadinanza brusiese – e dunque svizzera – quelle circa 70 persone che venivano considerate apolidi, cioè senza patria. L’operazione andò a buon fine in primo luogo perché la Confederazione si assunse buona parte dei costi per far sì che i novelli cittadini potessero usufruire a pieno titolo soprattutto del fondo scolastico e del fondo pauperile comunale.

Effettivamente queste rettifiche dei confini nazionali avvenute nella seconda metà del XIX secolo sono tra le ultime notevoli dello Stato federale. Ciò non era un caso: con la nascita del Regno d’Italia nel 1861 si era costituto uno Stato nazionale vicino e dunque era necessario fare chiarezza sui confini. Ma allora non soltanto l’Italia era un giovane Stato, anche il nostro Comune era ancora un vero fanciullo: la separazione dal Comun grande di valle era avvenuta soltanto dieci anni prima nel 1851. Ecco dunque quando noi brusiesi diventammo un proprio comune.

Nella corrispondenza diplomatica che si trova all’Archivio federale a Berna c’è anche un’altra questione di confini che ci riguarda e che tenne il Consiglio federale del giovane Stato federale assai occupato e preoccupato: la separazione delle parrocchie cattoliche di Brusio e Poschiavo che erano dipendenti dalla diocesi di Como e che passarono alla diocesi di Coira nel 1870. Lo Stato federale non intendeva infatti più tollerare ingerenze estere neanche in campo religioso.

Questi processi sono tipici per la formazione di uno Stato nazionale e hanno naturalmente molto più a che fare con la nascita dello Stato federale nel 1848 piuttosto che a quella di una mitologica Confederazione del 1° agosto 1291. È sbagliato pensare che i primi accordi confederali intendessero costituire quella Confederazione che si mise in atto soltanto verso la fine del XV secolo. Inoltre, con le cosiddette Leghe cittadine, vi erano anche altre coalizioni alternative con città fuori dall’odierna Svizzera alle quali partecipavano diverse città e cantoni dell’odierna Svizzera. È dunque assai difficile tracciare una linea diretta che dal 1291 ci porti ai nostri giorni.

Storicamente, tra l’altro, anche il calendario è incerto. Il documento del patto federale non dà una data precisa, ma parla del principio del mese d’agosto. Che questa datazione imprecisa venisse fissata proprio al 1° giorno del mese lo dobbiamo agli intraprendenti bernesi. Nel 1891 i bernesi volevano festeggiare i 700 anni della fondazione della loro città. In quel contesto pensarono bene di rafforzarne l’effetto, abbinando a questi festeggiamenti quelli di un 600esimo

anniversario della fondazione della Confederazione che cadeva a pennello e la data cadde proprio sul 1° agosto. Effettivamente, fino a buona parte del XIX secolo la fondazione della Confederazione si faceva risalire al giuramento sul Grütli datato al 1307 e non al documento del 1291, a lungo dimenticato. Rimaneva comunque confusione: nel 1907 ad Altdorf si festeggiavano nuovamente, con tanto di delegazione del Consiglio federale, i 600 anni della Confederazione. Ad ogni modo, fu nel 1891 che, per la prima volta, si festeggiò il Primo d’agosto. Poi per più di cent’anni la giornata rimase normalmente lavorativa. Soltanto a partire dal 1994, dopo l’esito positivo di una votazione popolare, la festa nazionale divenne un giorno festivo.

Dunque, nel 1891 il giovane Stato federale festeggiò per la prima volta il Primo d’agosto. Non devono dunque stupirci né la forte retorica nazionalistica, né i rimandi storicisti che fortemente marcarono le festività. Se consideriamo che allora il nostro Cantone apparteneva alla Confederazione svizzera soltanto da 88 anni, con certa miopia storica ma con tanto più pathos, Il Grigione Italiano del 1° agosto 1891 esclamava giubilante:

«Contiamo sei secoli. L’albero della libertà si piantava sui monti elvetici con un vessillo... – Croce bianca in campo rosso. Questo vessillo appare anche oggidì grandioso e possente e dice a noi posteri: Conservatelo vergine e consegnatelo incontaminato ai tardi nepoti.»

Qui a Brusio era stata predisposta una festa con corteo fino a Campocologno. A mezzogiorno, il popolo era impaziente ma il cielo – e da qui inizio a citare estensivamente il cronista dell’epoca – «mandava giù acqua a catinelle, e pareva godesse di poter frastonare la solennità.» Poi, verso le 4 ½, il cielo cominciò a schiarirsi «volendo che Brusio possa festeggiare il 6. Centenario dell’Elveto patto. In tutti rinasce speranza. Siamo alle sette di sera. Una salva di mortaretti è il preludio che la festa è alle porte. Le campane delle due Chiese con melodiosi concenti intrecciano lo squillo comune e par che invitino all’affratellamento d’un atto si solenne. In diversi luoghi sventolano bandiere. Alle 9 è perfettamente sereno il cielo, i fuochi sui monti prolungano il vespertino crepuscolo.»

Il giorno dopo – e siamo ora alla domenica del 2 agosto 1891 – «spunta con tempo bellissimo... Il popolo rigurgita sul piazzale comunale. Tutti sono impazienti ad ordinarsi per le mosse. Suonano i sacri bronzi, una salve di mortaretti segna alle 10½ lo sfilar del corteggio.» Poi seguono cinque «infuocati» e «forbiti» discorsi, i canti del coro virile, di quello misto e quello della scolaresca e suoni della banda, ai quali – come sottolinea il nostro cronista – «una volta per sempre va tributato lode per le loro fatiche e produzioni». Seguono poi ben altri quattro discorsi nei quali si «infiamma la gioventù all’amor di patria, mediante forti propositi di operosità.» Poi il corteo parte da Brusio e giunge a Campocologno alle 4:20. Il paese è «imbandierato festante e gremito di Valtellinesi d’ogni ceto, età e condizione.» Il corteo continua fino al confine e qui s’intona l’inno nazionale – che tra l’altro non solo non era ancora ufficiale ma era completamente diverso da quello attuale – e «le mazze e gli archi antichi in costume mostrano al suolo italiano la loro fierezza; l’Elvezia applauditissima ed encomiata per

il suo costume e portamento grave ... innalza fiera il suo stemma e la sua spada, mentre innalzano gli stemmi anche le simpatiche zitelle dei 22 cantoni che l’accompagnano.» I militari tirano due salve, seguono poi almeno altri quattro discorsi, musiche e canti. All’improvviso sopraggiunge la Filarmonica della Madonna di Tirano ad onorare la festa con la propria musica e gli oratori inneggiano con «ovazione all’Elvezia ed Italia, per i loro buoni rapporti di buon vicinare.»

Ma l’apice deve ancora venire: «I fuochi di Bengala entusiasmano l’intiera folla al colmo quando compajono in scena ed in costume i tre primi Confederati per l’atto del Sacro giuro. Il loro aspetto, il loro contegno e le loro parole sono qualche cosa che elettrizza, scoppia fragorosa ovazione.» Finito l’inscenamento, tra canti e suoni, il corteo riparte poi alla volta di Brusio, sciogliendosi a Campascio. I restanti arrivano a Brusio alle 10½ e la gioiosa festa continua imperterrita – attenzione ora caro Arturo! – in casa del Presidente comunale fino alle 3 di notte.

Come vedete, care e cari brusiesi, anche se era la prima volta che si festeggiava il Primo d’agosto, i nostri antenati ce la misero proprio tutta.

Allora, come oggi, si trattava di ricordare i nostri valori fondamentali, anche se con pathos certamente esagerato, ma tipico di quell’epoca, e anche se i valori di sovranità nazionale e democrazia, ai quali s’inneggiava, naturalmente ben più corrispondevano a quelli dello Stato federale del 1848 che alla realtà medioevale del 1291. Da quel memorabile 1891 inneggiante alla democrazia, bisognerà comunque aspettare ancora lunghi 80 anni, fino al 1971, per ottenere che anche l’altra metà del popolo svizzero, quella formata dalle donne, potesse acquisire gli stessi diritti civici e democratici, trasformando finalmente la nostra Svizzera da una mezza ad una democrazia intera.

La nostra forte identità e la nostra consapevolezza, che quale minoranza bisogna spesso lavorare più degli altri, ci danno una certa spinta e una certa grinta. Stiamo attenti, però, che questa grinta non scada in superbia, esaltazione delle nostre presunte doti o, addirittura, in un atteggiamento sprezzante nei confronti degli altri.

Mi piace ricordare il preambolo della nostra Costituzione del 1999 dove il Popolo svizzero e i Cantoni legittimano la nostra carta fondamentale dichiarando di essere:

«consci della loro responsabilità di fronte al creato / risoluti a rinnovare l’alleanza confederale e a consolidarne la coesione interna / al fine di rafforzare la libertà e la democrazia, l’indipendenza e la pace, in uno spirito di solidarietà e di apertura al mondo / determinati a vivere la loro molteplicità nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci / coscienti delle acquisizioni comuni nonché delle loro responsabilità verso le generazioni future / consci che libero è soltanto chi usa della sua libertà e che la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri».

Che questo bel preambolo della nostra Costituzione svizzera ci sia di monito e di sprono per continuare il nostro viaggio di cittadine e di cittadini di un fortunato Paese.

Viva la Svizzera e viva Brusio!

Redazione 150
La Redazione
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